Il legno che rivestiva le pareti risaltava nel contrasto con i tessuti azzurri. Delle tendine e del piumone patchwork. L’armadio a muro, ovviava l’inconveniente delle piccole dimensioni della stanza, in cui troneggiava il lettone. Le mensole alle pareti servivano solo per bellezza e per appoggiare gli oggetti che Alberto aveva raccolto durante i suoi numerosi viaggi in Brasile. All’interno dell’armadio a muro, c’erano numerosi cassetti, oltre lo spazio per appendere eventuali vestiti, con un grande specchio applicato all’interno di una porta. Sistemai i miei completi, la tuta per sciare e nello scomparto a fianco sistemai le scarpe. Quanto mi piaceva quella stanza. Così piccola e funzionale. Nell’angolo, vicino alla finestra, non notai subito la presenza di un tavolino con sedia. E pensai che Alberto avesse fatto confusione nella destinazione delle stanze. Forse, quella era destinata ad Andrea, che era uno scrittore. Mi avvicinai alla finestra e guardai fuori. La neve scendeva copiosa a tal punto da rendere scarsissima la visibilità. Vidi la sagoma di una macchina arrivare. Pensai fossero tornati dal paese Luca e le nostre amiche. Mi controllai vanitosamente nello specchio. L’insieme mi piaceva. Presi la giacca a vento e scesi per andare loro incontro. Alberto e Andrea mi avevano preceduta di poco. Quando uscii mi accorsi che si trattava di qualcun altro. E senza pensare corsi incontro a Loris, come una liceale al primo amore. Mi abbracciò sollevandomi come ormai stava diventando un’abitudine quando ci incontravamo.
“Sembri molto contenta di vedermi!”, disse sornione,
“Nooo. Che dici! Io saluto così quelli che mi stanno antipatici”, dissi schioccandogli un bacio sulla guancia, e andai a salutare Paolo e Giuliana.
“Ho chiuso l’agenzia. Riapro dopo le feste. Con tutto il casino che sta combinando questa nevicata è più semplice tenere chiuso. Solo per raggiungere l’ufficio si deve fare un viaggio. Ci riposiamo tutti e dopo le vacanze ripartiamo pieni di energie. L’ho deciso ieri. Così ho obbligato Giuliana a seguirmi a Torino e a partire con noi. Qualunque notizia la riceverà prima se sta con me anziché da un’altra parte”.
“Allora, non eri tu che volevi andare a sciare?”, mi prendeva in giro Loris,
“Ci andrò non ti preoccupare!”,
“Per il momento non ti accontenteresti di un giro sulla motoslitta?”, mi propose Loris,
“Tu sei matto! Non si vede ad un palmo dal naso…”,
“Hai paura?”,
“No. Sono prudente!”,
“Dai entrate”, invitò Alberto, che accompagnò i nuovi arrivati nelle stanze a loro disposizione. Io rimasi nel grande salone. A guardare quella scala in legno massiccio che saliva al piano superiore, dove scomparvero le suole dei miei amici. Quelle pareti tutte in legno erano calde e rassicuranti. I divani ricoperti di un bel tessuto arancione aggiungevano calore a quell’ambiente previsto per l’aggregazione dei clienti, di quello che avrebbe dovuto essere un alberghetto. Nell’angolo in fondo c’era un bel camino, grande e sobrio, con i ceppi che ardevano, sprizzando scintille in tutte le direzioni, anche sul tappeto che Alberto aveva sistemato di fronte. Dietro alla zona dei divani, c’era un tavolo molto grande a cui potevano sedersi almeno una trentina di persone, Sul fondo vi era una credenza molto grande, sovrastata da una bellissima piattaia, dove qualcuno aveva disposto dei piatti azzurri, che poi mi accorsi appartenere ad una speciale collezione danese. Dalla zona pranzo si accedeva direttamente alla cucina. Ma dal punto in cui io mi ero fermata, non si vedeva perché un muro bianco e bucciato, fungeva da separé. Praticamente si entrava direttamente nel salotto, da cui si accedeva alla cucina. Grande e spaziosa, tutta in muratura, come quelle di una volta, con al centro un grande tavolo dove potevano sedersi almeno una dozzina di persone. Nella zona dell’ingresso vi era una porta che introduceva in una stanza che Alberto aveva adibito a studio ed altre tre porte, una delle quali portava nel piano inferiore. Ero rimasta lì. Immobile. Solo il mio sguardo si aggirava per la stanza come un uccello impazzito che non riesce a trovare via d’uscita. Osservavo ogni minimo dettaglio con attenzione esasperata. I mobili, le tende, le pareti, tutto. Se qualcuno fosse sceso dalla scala in quel momento mi avrebbe vista lì. Ferma, senza muovere un muscolo, con lo sguardo perso nel vuoto, a fissare la scala o una porta. Come un’ebete. Non riuscivo a muovermi. E cercavo di aggrapparmi a qualunque pretesto con ossessiva attenzione pur di non concentrarmi sulle emozioni che mi stavano sopraffacendo. L’arrivo inaspettato di Loris mi aveva spiazzata. Non volevo che la gioia e la felicità che mi avevano invasa trapelassero. In virtù della mia antica abitudine a non sbilanciarmi mai per prima. Quando mi resi conto di essere rimasta inchiodata in quel punto troppo a lungo, girai i tacchi ed uscii fuori. Il freddo e la neve che cadeva mi fecero riprendere in un attimo. Tirai un gran sospiro di sollievo. Ce l’avevo fatta ad uscire da quel penoso stato di coma in cui mi ero dibattuta per quel lasso di tempo. Mossi qualche passo, ma gli scarponcini si riempirono di neve, così rientrai per andarmi a mettere i doposci. Aprii la porta sbadatamente e quasi stesi Alberto che tentava di uscire, alzai gli occhi e vidi anche Giuliana ridere. Era comica la scena, ma soprattutto la mia espressione di sorpresa, come mi raccontarono.
Accampai delle scuse e non sapendo cosa dire aggiunsi che volevo cambiare scarpe. Salii in fretta le scale e mi chiusi in camera, come una scolaretta colta in flagrante a compiere una marachella.
Andai ad aprire l’armadio senza ricordarmi cosa cercassi. Desolata mi andai a sedere sul letto, l’energia che mi aveva sostenuta negli ultimi tempi sembrava essersi dissolta. Perché?
Tratto da "Il Reporter & il Detective"
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