Il salmone ammiccava dalla stagnola tra
bacche rosse, crostini e burro. Stappammo alcune bottiglie di bianco del nostro
paese. E gamberetti con salsina, paté, albese con tartufo.
Qualcuno propose una pausa. Angela dopo il
matrimonio si era trasferita a Sidney. Non fu facile perché non parlava
inglese. Suo marito era un ingegnere che la società italiana per cui lavorava
aveva destinato all’Australia per tre anni, di rinnovo in rinnovo, quindici.
Poi, la promozione, con relativo tornaconto economico li aveva convinti a restare.
L’unico rammarico era non avere figli, così, avevano fatto domanda di adozione,
ma stavano ancora aspettando. Nel frattempo si dedicava a bambini maltrattati e
famiglie con problemi di alcolismo. Una vita serena. Con tanto amore. Lei e il
marito, che non c’era per impegni di
lavoro, avevano una bella cerchia di amici, con cui trascorrevano i week-end,
tra barbecue e pic-nic. Vivevano fuori città, fra grandi praterie e allevamenti
di pecore. Elisa e Giuditta da ventanni in Angola lavoravano come medici, una
ginecologa e l’altra pediatra. Si erano fermate affascinate dalla gente e dal
bisogno che c’era di fare. Elisa aveva conosciuto un medico tedesco, con cui
aveva avuto una lunga relazione. Due anni prima lui era morto, colpito da un
virus sconosciuto. Giuditta aveva una relazione con un medico dell’Angola più
giovane di una decina d’anni, e per questa ragione non si decideva al grande
passo. Quella vacanza di Natale era anche una pausa di riflessione. Al suo
ritorno o si sposavano o si mollavano. Raccontavano gli occhi grandi dei
bambini, la delicatezza delle madri, povere e dignitose. La bellezza rara di
alcuni uomini. I tramonti africani, le distese immense e desolate, le feste e i
canti intorno al fuoco. Su Marco qualcosa avevano letto. I loro discorsi fecero
scattare non so quale molla in Alberto che iniziò a parlare, man mano trasformandosi.
“Se Loredana avesse detto subito la verità...
Oggi, ho una compagna, a cui ho dato poco, senza farmi coinvolgere troppo per paura
di soffrire ancora. Due volte all’anno andiamo come volontari in Brasile. A
Manaus in un lebbrosario e a Belem in un
orfanotrofio”,
“Non lo hai mai detto ”, disse Mirella,
“Qualcuno avrebbe capito? Mi avrebbero preso
per pazzo”, rispose Alberto.
Aveva ragione. Nessuno avrebbe capito. Forse
nemmeno lei. Che il suo sogno nel cassetto era fare la giornalista come Marco. Scelse
gli uffici stampa per mantenersi e poi il marketing. Stava con Giovanni ed erano
felici. Arrivò la classica domanda.
“Non appena le avrò chiesto se vuole
diventare mia moglie e lei dirà di si”.
Luca raccontò i suoi ultimi vent’anni in
parodia devo dire ben riuscita. I passaggi di carriera e le numerose relazioni
finite male per colpa del suo carattere. Adesso era single. Quando tacque,
Giuliana sentì la necessità di sfogarsi, più che di fare confidenze. Parlò del fallimento
del suo matrimonio. La laurea in architettura, finita in soffitta. La
rassegnazione. La depressione da cui entrava ed usciva. Il rifiuto di avere
figli. La fuga dalla realtà tra braccia impossibili. Il senso di colpa. Il
grigiore della sua esistenza era sul viso, nell’abbigliamento e nel tono di
voce. Piatto e monotono, a tratti stridulo. A Paolo disse che lo aveva amato
molto, ma non aveva avuto il coraggio di ribellarsi ai suoi. L’atmosfera si era
fatta desolante.
Roberta raccontò del matrimonio sontuoso in
Sudafrica. Della professione di diplomatico del marito. Gran galà. Ricevimenti,
cocktails, sfilate di moda. La noia che cercava di strapparsi di dosso nelle braccia
di giovani amanti. Odiava la povertà che aveva conosciuto da adolescente. Restava
col marito, retrogrado e classista che con i soldi placava la sua ansia di
opulenza.
Loredana riassunse la sua vita dal tradimento
ad Alberto all’università di Padova, allo studio milanese. Parlò delle sue ricerche,
della vita privata, per un tratto condivisa con Luca. Dell’essere single per
scelta. Di viaggi, di nuovi amici e del desiderio di collaborare con un’equipe
medica americana ad uno studio sulla personalità. Una Loredana diversa.
Andrea ci riportò a tavola. Era ora degli
agnolotti burro e salvia. Del sorbetto al mandarino, dell’arrosto con carciofi
e funghi e della frutta prima di un’altra pausa.
Andrea raccontò come aveva raggiunto il
successo, pubblicando in vent’anni, sedici best sellers, in cima alle
classifiche per molto tempo e tradotti in almeno sei lingue. Parlò molto del
lavoro e poco della vita privata, un paio di relazioni durate qualche anno,
pochi amici, con cui si incontrava una volta a settimana per il poker e il
biliardo. Non una parola su Marco.
“Andrea, perché non parli mai di Marco?”,
domandò Giovanni
“Quello che avevo da dire l’ho detto”,
rispose lapidario,
“Intendevo perché non racconti qualcosa di
quando vi trovavate? Non parlavate mai di noi?”,
“Parlavamo poco del passato. A lui non faceva
piacere…”,
“Parli di Elena?”, irruppe Roberta,
Andrea non permise a nessun altro di
indagare. Loris sussurrò di non dar peso alle malignità.
Raccontai del mio lavoro e dell’energia che
mi dava la nuova sfida professionale. Del fidanzamento con Marco e del
matrimonio con Luca. Del desiderio di
chiudere con il passato una volta per tutte. Loris si illuminò. Speravo
raccontasse qualcosa della sua vita, ma tacque. La vita di Paolo era andata in
crescendo col passare del tempo. Delle difficoltà iniziali, dei pochi soldi e
dell’agenzia. Tanto lavoro e poca vita privata. E da quando aveva conosciuto
Loris meno lavoro e più divertimento “Lo invito per Natale a fare bisboccia. E
lui? Diventa un altro uomo. Serio. Posato. Silenzioso. No ma dico! Rendiamoci
conto, uno conosce una canaglia… Andiamo, facciamo e brighiamo. Poi, quando gli
dico ‘Dai stasera usciamo con un paio di amiche’, lui che risponde? Prova a
dire… Stasera sono stanco preferisco leggere qualcosa. Lui che da almeno
vent’anni non prendeva un libro in mano….”. Il racconto di Paolo era divertente.
Loris arrossì senza dire niente.
“E sei anche timido”, insistette Loredana,
“Non sentirti in imbarazzo se ti piace
Elena”, aggiunse Andrea,
“Nessuno ti guarderà in cagnesco. Nemmeno
io”, sottolineò Luca,
“Guarderemo tutte in cagnesco lei, che si
cucca sempre i meglio”, rise Angela,
“Non togli nulla a nessuno”, disse Alberto. Sdoganato.
Adesso, Loris era uno di noi.
Alla mezzanotte portammo i dolci in tavola. Brindisi,
auguri, baci e abbracci. Loris mi strinse con dolcezza dandomi quel calore che sapeva
di casa.
Dopo l’abbuffata ci voleva il caffè. Sulle
note di When a Man Loves a Woman, si
spostarono nel salone bianco. Loris mi trattenne in sala da pranzo. Rimanemmo a
guardarci. Occhi negli occhi. Senza parole. Mi accarezzò, indugiando con la
mano sul mio collo, avvicinò il suo viso al mio. Mi sfiorò le labbra con un
bacio dolce e mi sussurrò “Buon Natale!”.
Il mambo
echeggiava allegramente nel salone. Chi ballava, chi beveva, chi ancora
mangiucchiava panettone e cioccolatini, chi tentava di parlare, chi aveva
bisogno di estraniarsi. Quasi tutti il giorno seguente avrebbero pranzato in
famiglia, al paese. Perché non incontrarsi nel tardo pomeriggio per la messa di
Natale? Io sarei rimasta a Torino. A casa mia. Mi sarei alzata con comodo. Unico
impegno, la messa di Natale.
“Perché Elena?”, mi domandò Andrea,
“Non è la prima volta che sto da sola. Giorno
di Natale o no. Non cambia niente”,
“Davvero hai intenzione di restare a casa da
sola?”, si informò Loris,
“Perché ti sorprendi? Nemmeno tu domani farai
Natale con i tuoi…”,
“E’ vero. Ma sarò in compagnia”,
“A me va bene così. Starò a casa mia, senza
fare assolutamente niente”.
Nacque l’idea delle vacanze di Natale in
montagna. Alberto mise a disposizione la baita di Sauze d’Oulx. Già da Santo
Stefano e festeggiare Capodanno insieme. L’idea piacque a tutti. Verso le tre
andarono via i primi. E tutti gli altri a seguire. Io andai via con Paolo e
Loris. Giuliana voleva tornare a casa in treno e gli altri la convinsero a
fermarsi da Andrea.
Per arrivare a casa mia, impiegammo quasi due
ore, così mi feci lasciare a poca distanza che avrei fatto prima a piedi. Loris
scese e mi accompagnò. Davanti al portone mi baciò nel suo modo dolce ed
etereo. Indefinibile. Salii contenta. Leggera come una piuma, nonostante il
cenone. Sprofondai nel sonno. Senza pensieri.
Il campanello squillò a lungo prima che lo
sentissi. Mi contrariò non poco. Avevo altri programmi io quel giorno. Per
esempio dormire almeno fino all’una. Attesi sulla porta che l’inaspettato
visitatore si mostrasse. “Loris? Che ci fai qui?”,
“Non potevo lasciarti sola il giorno di
Natale”, disse sollevandomi tra le braccia.
Ero ancora in pigiama, i capelli arruffati e
gli occhi pesti di sonno, ma mi sentivo fantastica. Ecco, dal primo momento che
l’avevo incontrato mi faceva sempre sentire così. Unica e meravigliosa. I panni
del duro che calzava da tanti anni, non voleva toglierseli. Mi adagiò sul
divano e domandò se avevo fatto colazione. No. Dopo l’abbuffata boccheggiavo ancora.
“Un caffè?”, disse,
“Dammi il tempo di riprendermi e lo preparo”,
“Se mi dici dove trovo la roba, ci penso io”.
Mi sarei data dei pizzicotti per essere
sicura che non fosse un sogno. Loris, che doveva essere al paese con Paolo, il
giorno di Natale si aggirava fra la cucina ed il soggiorno di casa mia. Non ci
credevo. Era troppo bello. Appoggiò il vassoio sul tavolino e mi porse la
tazzina.
“Certo che sei proprio una bella dormigliona.
Ma lo sai che ore sono?”,
“Non voglio sapere che mi sono svegliata così
presto, quando avevo intenzione di dormire almeno fino all’una”,
“Sono le tre”,
“Mi prendi in giro”,
“Io mi sono alzato all’una. Con calma mi sono
preparato e sono arrivato qui. Convinto di trovarti già sveglia e pranzare con
te”,
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