“Merenda va bene lo stesso?”, risi mentre mi
lasciavo mollemente scivolare sulla sua spalla. La neve continuava a scendere copiosa,
dalle ondulazioni del manto bianco che ricopriva ogni cosa, dedussi che ne fosse
caduta più di mezzo metro. Andai a preparare il pranzo per festeggiare il
Natale con lui. Avevo previsto un pranzo speciale per quel Natale, con salmone,
agnolotti, arrosto e gran finale con fragole e Saint Honoré. Le sei arrivarono
in fretta e avevamo poco tempo per raggiungere la chiesa, non molto distante.
Piccola e bianca, aperta solo nelle grandi occasioni, non più di tre o quattro
volte all’anno. Trovammo posto a sedere in uno degli ultimi banchi della
chiesetta gremita per la messa di Natale. Donne anziane, quelle che riescono a
prendere anche tre messe al giorno, uomini con i cappelli in mano, come in
altri tempi, gente di tutte le età, ragazzi, a gruppetti più o meno numerosi,
che avevano festeggiato fino a notte fonda e dormito tutto il giorno e ancora
non erano completamente svegli. La voce tenorile del prete echeggiava fra le
antiche mura della pieve romanica. Sembrava di essere stati proiettati nel
medioevo. Mancava la messa in latino. L’atmosfera era quella giusta. All’uscita,
Loris mi prese per mano e mi chiese cosa volessi fare. Niente di speciale.
Stavo bene così con lui. Due passi in collina, l’aria fredda sul viso, il
mantello bianco di neve, le luci delle case attutite dai fiocchi che ancora
cadevano e il cielo con sfumature indefinibili. Camminammo per un’ora parlando
ininterrottamente e poi rientrammo. Brodino caldo con cappelletti, in casa non
avevo altro. Dopo cena, vicini sul divano a guardare la televisione. Un
servizio del telegiornale catturò la nostra attenzione. Iniziammo a parlare di
politica. Non era più successo dopo Marco.
Mezzanotte arrivò in un lampo. Loris si alzò
per andarsene. Le premesse per invitarlo a rimanere c’erano, ma la paura di un
nuovo rifiuto mi trattenne. Mi guardò come se mi leggesse dentro.
“Vorrei tanto... Ma ancora no. Capirai.
Fidati. Non avere paura di me”. Sorrisi, le sue parole mi avevano allargato il
cuore.
“Perché, domani non venite anche voi.
Rientrate in serata”, dissi,
“Parlo con Paolo ma non credo. Guarda che
disastro”.
Il mattino seguente mi alzai di buonora per
preparare i bagagli. Andrea suonò alle nove, puntualissimo. Caricammo i borsoni
e gli sci.
Aveva messo le catene al fuoristrada. Ci
avviammo ai venti all’ora.
“Non posso andare più veloce, con la neve che
c’è rischiamo di sbandare”,
“E andare
in treno? Dalla stazione c’è il pulmino che arriva in paese a Sauze”,
“Vorrai scherzare, con tutta questa roba?….
Tanto quando arriviamo, arriviamo”,
“Una nevicata così non ricordo di averla
vista”,
“Nemmeno io. Forse i nostri nonni. Quando le
stagioni erano ancora le stagioni… E ai loro tempi che bei tempi…”, disse,
“Allora, com’è andato il Natale al paese?”,
“Non me ne parlare. Ti abbiamo dato tutti
ragione. Sai quanto ci ho messo ad arrivare? Quattro ore. Per sedermi a tavola
e abboffarmi un’altra volta. Poi, tutti insieme a messa e a bere qualcosa al
bar-trattoria. Quello vicino al comune. Dove andavamo sempre. Te lo ricordi?
Sai che Piero ci ha riconosciuti tutti. Pover’uomo aveva le lacrime agli occhi.
Continuava a dire ‘Ma che bel regalo questo Natale’. Ha detto ‘Uno non tornerà
più, l’altro chissà, ma perché Elena non è venuta?’. Si è raccomandato di
salutarti e di andarlo a trovare”,
“Ci andrò. E’ che andare al paese senza
passare dai miei …”,
“E il tuo Natale con Loris com’è andato?”,
“Magnificamente. Una sorpresa che non mi
aspettavo. Quando ha suonato il campanello stavo ancora dormendo, sono andata
ad aprire in pigiama e con gli occhi chiusi. Quando me lo sono trovato davanti
a momenti svengo. Siamo stati insieme tutto il giorno”,
“Cerca di andare fino in fondo senza paura e
smettila di nasconderti dietro ai fili”,
“Dici che mi sto arrampicando sui vetri per
non ammettere che mi sto innamorando di lui? Mi sento come se fossi sempre
stata innamorata di lui”.
Dopo un’ora di strada faticosa e un sacco di
discorsi che al mattino solo un amico riesce ad ascoltare senza perdere la
pazienza, avevamo attraversato la città e preso l’autostrada. Che in condizioni
normali si fa in poco più di un quarto d’ora. Discretamente agibile, grazie al
frenetico andirivieni di spartineve e spargisale. Continuava a scendere talmente
tanta neve che non facevano in tempo a toglierla che si erano accumulati almeno
altri dieci centimetri. Dopo un’altra ora difficoltosa, soprattutto per Andrea
che guidava, pausa in autogrill. Piazzale strapieno di auto e bus fermi.
Tentammo, senza fortuna di entrare nel piccolo bar. Dai vetri appannati si
intravedeva una massa pigiata, scura e uniforme che si muoveva appena.
Passeggiammo nello spazio ridotto del
piazzale per i mucchi di neve accumulati per liberare parcheggi. Finalmente, una colonna di persone
uscì dal bar e si diresse verso un paio di bus. Turisti stranieri che andavano
a sciare. Olandesi di mezza età e un gruppo inglese di famiglie.
Ordinammo due caffè. Che arrivarono molto
lentamente, perché i tre camerieri dietro al bancone erano in difficoltà.
Centinaia di persone continuavano ad entrare ed uscire e loro non facevano a
tempo a preparare panini, dolci, sistemare il sacco del caffè, mettere le
tazzine sporche in lavastoviglie che già c’erano nuove ordinazioni. Sacchi
neri, pieni di immondizia erano accatastati verso il fondo del bancone, ché
nessuno aveva tempo di portarli via. Anche i tavolini erano inondati di
tovagliolini di carta e bicchieri. Guardavamo in silenzio quel marasma e
capivamo i baristi stravolti dopo appena tre ore di turno. In lontananza si
vedeva la sagoma di un altro bus che di li a poco avrebbe riversato una nuova
ondata di turisti.
Percorremmo l’autostrada lenti e rallentammo
ancora sull’unica via d’accesso al paese. Dopo un tempo infinito, Andrea fermò
la macchina. Alberto ci aiutò a scaricare i bagagli e portarli in casa. Uno chalet
molto grande. In legno e mattoni, accogliente e romantico. “Caspita. E’ enorme”,
dissi. Da quanto aveva detto, Alberto amava gli spazi piccoli.
“Era già così quando l’ho acquistato. Volevano
fare un alberghetto, poi le cose sono andate male e hanno venduto. Sono
arrivato al momento giusto. Dopo ti faccio vedere il resto della casa. Ti piace
la stanza, Elena?”,
“Bellissima”, dissi osservando la neve dalla
piccola finestra con le tendine a quadretti azzurri,
“E’ vicina a quella di Andrea, a fianco
Mirella e Giovanni, e di fronte…”, disse allusivo,
“Di fronte?”, chiesi facendo l’ingenua,
“Hai capito. La mia è quella in fondo. A
proposito, domani ci raggiunge la mia compagna. Birgitte. Ti piacerà. Tu parli
francese molto bene, lei non parla una parola di italiano”,
“Non ti preoccupare, vedrai che sarà come
fosse sempre stata con noi”, dissi
“E le sorprese non sono finite. Luca, Elisa e
Giuditta sono in paese per le sigarette. Mirella e Giovanni per strada, e
conoscendolo arriveranno verso sera”, disse ridendo,
“Non doveva arrivare anche Roberta?”,
“E’ in camera a riposare. Ha mal di testa. Un
po’ per gli strapazzi di questi giorni e un po’ per il fuso orario. Ora ti
lascio disfare i bagagli. Se vuoi darmi gli scarponi li porto sotto”. Alberto
uscì richiudendosi la porta alle spalle. Osservavo la stanza. Boiserie e
tessuti azzurri, tendine e piumone patchwork. Mensole alle pareti che ospitavano
oggetti raccolti da Alberto nei suoi viaggi in Brasile. Dentro l’armadio a
muro, un grande specchio. Quanto mi piaceva quella piccola stanza. Nell’angolo,
vicino alla finestra, un tavolino con la sedia. La neve scendeva copiosa e rendeva
il paesaggio irreale. La sagoma di una macchina si avvicinava. Mi specchiai con
una punta di vanità. Scesi. Alberto e Andrea mi avevano preceduta di poco. Senza
pensarci corsi incontro a Loris.
“Sembri molto contenta di vedermi”, disse
sornione,
“Ho chiuso l’agenzia. Riapro dopo le feste.
Con tutto il casino che sta combinando la nevicata è più semplice. C’è anche Giuliana.
Qualunque notizia la riceverà prima se sta con me”.
“Non eri tu che volevi andare a sciare?”, mi sfotteva
Loris,
“Ci andrò non ti preoccupare”,
“Un giro in motoslitta?”,
“Tu sei matto. Non si vede un palmo dal
naso…”.
Alberto li accompagnò nelle stanze. Sola nel grande salone guardavo quella scala in legno massiccio che
saliva al piano superiore, dove scomparvero le loro suole. Le pareti in legno
calde e rassicuranti. L’ arancione dei divani spargeva allegria. Al fondo il
camino, grande e sobrio, ardeva con i ceppi che sprizzavano scintille in tutte
le direzioni, anche sul tappeto. Dietro ai divani, un grande tavolo poteva accogliere
almeno trenta persone. Sul fondo una credenza con piattaia portava in bella
vista piatti azzurri, di una speciale collezione danese. Dal punto in cui mi
trovavo, un muro bianco e bucciato nascondeva la porta della cucina in muratura
come quelle di una volta. Ero lì. Immobile. Solo il mio sguardo vagava per la
stanza. Osservavo ogni dettaglio. I mobili, le tende, le pareti, tutto. Se
qualcuno fosse sceso dalla scala in quel momento mi avrebbe vista lì. Ferma, lo
sguardo perso nel vuoto fissando la scala o una porta. Come un’ebete.
Ciao amici, mi chiamo Yael Samuel. Sono qui per diffondere la buona novella ai bisognosi. Ero depresso quando mia moglie mi ha lasciato per un altro uomo, perché ho dovuto smettere di lavorare perché avevo il cancro ed ero al verde. Mi ha portato via la mia unica figlia, quindi la mia unica opzione era morire, ho provato a chiamarla ma mi ha ignorato, le ho mandato un SMS e all'improvviso mi ha risposto e ha detto che non la chiamo né le mando più messaggi, quindi un giorno mi metterò in contatto con il mio amico su Facebook e gli ho spiegato tutto e mi ha detto che aveva avuto gli stessi problemi prima, mi ha fatto conoscere un incantesimo magico chiamato Dottor Apata, mi ha inviato la sua e-mail personale e l'ho contattato tramite [drapata4@gmail.com] e mi ha risposto rapidamente, gli ho spiegato i miei problemi e mi ha detto di non preoccuparmi, lo ha fatto per così tante persone che non hanno mai creduto nella magia, ma ho sbagliato a cercare di convincerlo per 24 ore a lanciare magie e a guarirmi dal cancro e a trovarmi un lavoro migliore e all'improvviso mi ha mandato delle medicine per la sua malattia, le ho prese solo per 2 giorni ed ero libero. Il giorno dopo non potevo credere ai miei occhi, qualcuno bussò alla mia porta e non mi aspettavo nessuno quel giorno, all'improvviso mia moglie pianse da sola e io non ce la feci, mi chiese perdono, ricevetti subito una chiamata dalla mia azienda dove lavoravo da anni e fui promosso alla posizione di direttore di una società modello negli USA. Per favore aiutatemi a ringraziare il dottor Apata per avermi restituito tutto quello che avevo perso prima, potete anche contattarlo tramite whatsapp / viber con il suo numero di telefono: +447307347648.
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